Le persone che animano lo spazio libertario “Sole e Baleno” racchiudono nel proprio sentire, nel cuore e nelle lotte che portano avanti la tensione verso un mondo liberato. Liberato dalle schiavitù a cui questo stile di vita ci incatena (lavoro, denaro, infelicità, odio,..). Liberato dalle decisioni imposte, riguardo noi stessi, il pianeta e tutte le forme di vita. Liberato dallo sfruttamento, dalla distruzione, dal controllo, dall’addomesticamento. Liberato dalle gabbie che negano la libertà agli animali umani ed a quelli non umani. Un mondo liberato dalle prigioni. Perchè esse esistono oggi per mantenere stabile una realtà basata sull’inequità e l’ingiustizia. Al suo interno vengono detenuti individui che per scelta o costrizione non si sono accontentate di quanto viene concesso. Questa piccola rubrica vuole essere uno spunto di rilessione sul carcere e sulla società in cui si inserisce. Vuole essere una ventata di solidarietà e un caloroso abbraccio a tutte/i quelle/i compagne/i che sono rinchiuse perchè in lotta contro questo mondo. In questo spazio riporteremo pensieri e parole di persone incarcerate, pezzi di corrispondenza che trasmettono una forza e una capacità di rimanere liberi nonostante rinchiusi. Affinchè la determinazione di chi guarda il cielo attraverso le sbarre possa essere uno stimolo per non rassegnarsi e continuare ancora più decisi le battaglie intraprese.
Tutte/i libere/i!
L' attivista americano Kevin Oliff è stato condannato a 2 anni e mezzo di carcere per possesso di 'attrezzi da scasso', trovati nella sua auto in seguito ad un controllo di polizia e che dovevano essere usati, a detta dell'accusa, per attaccare un allevamento di volpi poco distante dal luogo del fermo. Riportiamo, tradotto, il comunicato che Kevin ha diffuso dal carcere alcuni giorni fa : "Ascoltate attentamente questo rumorio che si diffonde il tutto il paese, è una frenesia. Di migliaia di zampe che corrono, di un industria feroce che vuole risposte che la polizia fa di tutto per trovare Non è difficole comprendere in quale momento per me e Tyler è iniziata questa storia. Il controllo della mia carta d'identità ha dato il risultato di 'estremista per i diritti animali', ed in improvvisamente un normale posto di blocco pullulava di agenti, tirati giù di corsa dai loro letti. Ammanettato nella sporcizia, li ho visti spulciare nel nostro sacchetto di proteine di soia in polvere come se fosse antrace. Si sentivano chiaramente importanti, mentre parlavano per telefono ai loro superiori di questo 'colpo grosso'. Mi preparai per l'inevitabile . Il loro circo è continuato per tutta la notte, a cominciare dalle acrobazie dei poliziotti che tentavano di giustificare la perquisizione della nostra auto. In tribunale l'FBI che tentava di trattare questo misero caso statale come una questione di sicurezza federale. In carcere, con i secondini che mi hanno punito selettivamente nei modi più diversi negli ultimi quattro mesi. A casa, con le persone che mi vogliono bene che si chiedono quando potranno rivedermi..mentre gli agenti federali li molestano. Mi resta il privilegio di poter trovare forza e motivazione da persone meritevoli in tutto il mondo, da questa piccola città del Midwest sino in Australia. Non posso esprimere sufficiente riconoscenza per ogni donazione, lettera ed ogni libro che mi è stato inviato mentre sono rinchiuso qui. Nelle parole dei miei carcerieri : “ Voi altri siete bravi a fare quello che fate”. Sono orgoglioso di dire che sono d'accordo . Esprimo qui la mia profonda gratitudine per coloro che si battono per la chiusura delle prigioni più barbare, dove miliardi di animali innocenti sono rinchiusi. Tutto questo è chiaramente in netto contrasto con le ambizioni repressive dei miei carcerieri e di quelli come loro, che amerebbero poter arrestare qualsiasi ragazzo che passa per la loro città con in auto delle Cliff bars ( dolce vegan ndr) e degli scanner radio. Il loro obiettivo è quello di fermare un movimento che sta imperversando nel paese. E nella loro incapacità di catturare i responsabili, si accontentano di imprigionare chiunque possa divenire un simbolo ed un deterrente. Mentre sono seduto dentro alla prigione di Woodford County attendendo i prossimi eventi, sono motivato nell'andare avanti grazie a due cose. Il supporto di una comunità che cresce più forte e sprezzante ogni giorno. E il pensiero di coloro che sono riusciti a fuggire."
Riceviamo e diffondiamo una lettera di un compagno rinchiuso nella sezione nuovi giunti del carcere delle Vallette - Torino: «Benvenuti ai nuovi giunti! La sezione dove sostano i nuovi arrivati in questa galera, che un mio compagno chiama il “limbo”. In teoria dovresti starci circa otto giorni, il tempo di compilare le scartoffie e di fare i primi esami, per poi essere trasferito in “sezione ordinaria”, ma le carceri sono piene e si svuotano lentamente, molto lentamente! Come se il tempo non esistesse affatto, a volte in questo corridoio ci resti persino un mese. L’Amministrazione, e quindi le guardie, non rendono più piacevole l’impatto: un rotolo di carta igienica, uno spazzolino, un tubetto di dentifricio lungo due centimetri, due piatti di plastica, una coperta o un lenzuolo, questa è la dotazione offerta dal carcere. I materassi sono di gommapiuma e siccome non ti viene dato nulla per pulire queste celle dove passano decine di persone ogni mese, si strappano dei pezzi per farci delle spugne. Così spesso non solo devi dormire senza cuscino ma anche coi piedi sul metallo della branda. Un’ora d’aria alle 9 e una all’1, rispetto alle due ore dell’ordinaria, il resto del tempo chiuso in cella senza “socialità” e senza televisione. Molte celle non hanno nemmeno gli sgabelli e gli stipetti per mettere la roba. Il normale rapporto tra agenti e carcerati è impostato sul “vivi e lascia vivere”, o meglio “vivi in questo buco in pace che io non ti disturbo”. La responsabilità per la vita di merda che si fa in mancanza di tutto viene rimandata alla gestione della grande e lontana Amministrazione. Per gli agenti siamo “detenuti” e ci danno pure del lei. Ma la parola più azzeccata è prigionieri. In quanto tali siamo sempre e comunque imprigionati ingiustamente, perché nessuna struttura carceraria o giudiziaria sarà in grado di sapere quello che abbiamo fatto, in che circostanze e perché. I loro funzionari vivono da tutta un’altra parte e in modo assai diverso, e le aule di Tribunale sono degli uffici come altri dove tutti i conti vengono approssimati in eccesso. Non ci conoscono e non ci conosceranno mai. Allora su quale base ci giudicano? Spaccio, furto, rapina, resistenza, ecc… questi sono i loro nomi alle nostre risposte che in molti abbiamo trovato alla loro crisi. Papà ha perso il lavoro, mamma deve operarsi in una clinica privata costosa, un bimbo e un altro in arrivo, nessuno mi presta i soldi per aprire una piccola attività per sostenere la famiglia, la macchina, il telefono e quello che serve per vivere bene… Allora si prende una pistola, un motorino, si studia un obiettivo e un percorso, e via! A volte va bene a volte va male. Ma la galera resta sempre una merda, e se va male ce la fanno pure pagare coi soldi che non abbiamo. Altri sacrifici, doppia fregatura. Vaffanculo. I prigionieri più forti (e dignitosi) sono quelli che non si condannano e non condannano gli altri per quello che hanno fatto. D’altronde se tutto fosse andato bene fuori non ci saremmo nemmeno sentiti in colpa, perché dovremmo sentirci in colpa ora che siamo qua dentro? Quando ci biasimiamo, quando diciamo “ho fatto una cazzata” dovrebbe essere solo per dire che avremmo potuto muoverci meglio: non far suonare l’antifurto di quel BMW, stare più attenti alle telecamere, usare dei guanti per non lasciare impronte, mascherarsi per tirare un pugno a quella guardia infame che voleva prendere una nostra amica. Se tra prigionieri ci comprendiamo è perché sappiamo quanto è dura la vita quando non si ha il culo al caldo in qualche ufficio a comandare, a farsi i conti in tasca, ad eseguire. Conosciamo i nostri quartieri, le strade dove viviamo o dove siamo stati presi. Se i posti dei ricchi sono, per molti, il luogo di “lavoro”, i posti dove viviamo dovrebbero essere quelli dove la polizia fatica a lavorare. Dove se cadiamo arrestati la notizia vola di bocca in bocca, di balcone in balcone. Dove i nostri cari si incontrano per raccogliere soldi tutti assieme o per cucinare per noi e i nostri fratelli rinchiusi. I nostri amici dovrebbero venire fuori dal carcere a salutarci, con botti e fischi, perché qui il tempo è una macina che ti consuma lentamente e dieci minuti di euforia bastano a riempire tutta l’ora dopo. Qua è uno schifo, ma niente giornalisti a testimoniare, grazie. Ci basta vedere le nostre facce stampate sulle pagine di “Torino Cronaca”, quella rivista populista e forcaiola, per capire che sono tutti infami. E quelli che non lo sono, con le belle parole non possono nulla. Niente associazioni né parlamentari europei, che restino all’”Arcobaleno” a far finta che le Vallette sono il carcere migliore del Nord Italia. Ci siamo solo noi e la nostra gente, nel bene e nel male, quando si gioisce e quando si patisce… quando si lotta.»
Riportiamo le testimonianze di alcune ragazze rinchiuse al carcere della
Dozza (Bologna) che ci hanno scritto raccontandoci quello che ha
significato per loro la battitura che hanno portato avanti durante la
mobilitazione nazionale.
GiùMuraGiùBox Forlì
19.55…l’orologio indica che il momento del nostro grido è vicino…tra
5 minuti potremo innalzare la nostra voce oltre quelle mura che limitano
il vedersi dei nostri visi. Quel momento in cui noi detenute riuniremo
il nostro dolore, la nostra rabbia, la nostra speranza in un unico atto,
quello di battere con tutta la forza che abbiamo in corpo contro le
gelide, arrugginite sbarre morte a cui appoggiamo le mani ogni volta che
il nostro sguardo si posa sul cielo sconfinato. Le 20.00, partiamo
all’unisono con una carica eccezionale che pochi possono comprendere.
Sale il rumore assordante di tante mani di PERSONE piene di voglia di
vivere e di tornare a far parte del mondo…Quel mondo che tanto amiamo
e che appartiene a noi quanto a chiunque altro. I pensieri scorrono
incessantemente e viaggiano lontano..Arrivando a chi abbiamo di più caro
al mondo e mentre sale la nostalgia dallo stomaco, sale anche l’energia
per battere ancora più forte. Anni..tutti questi anni..Perché..Mi guardo
indietro e so di non essere una persona cattiva, anzi sono una persona
normale che si batte per ciò in cui crede…Ed eccomi qua, unita alle
mie compagne detenute ad alimentare l’urlo. Un urlo che si chiede perché
qualcuno ha deciso che ciò che facevo era reato, perché i sistemi creano
il problema per poi darci le sue “geniali soluzioni”. Siamo solo pedine
dei potenti e dopo esserlo stata per 24 anni interi ho deciso di non
seguire più la corrente e chiedere di vivere in un mondo migliore senza
guerre, senza crudeltà tra esseri viventi (preciso animali compresi),
con rispetto e amore verso il mondo che ci ospita, senza gabbie che
rinchiudono persone che non meritano di essere private della loro
libertà.
Il mio pensiero personale su questa battitura che abbiamo fatto è che è
stato molto liberatorio e son contenta di aver contribuito in tutto ciò.
Spero che venga riportato tutto ciò. Ho urlato il mio odio contro questo
sistema sbagliato e ipocrita dove lo stato ci ha messo in ginocchio e
noi paghiamo i danni per aver fatto cose per sopravvivere. Ma rifarei
tutto dall’inizio. Non mi pento di niente. Viva la libertà, anche di
parole ed espressione.
Cosa si può provare dietro ad una finestra e dentro un 3 metri quadrati
di spazio in tre?
La sensazione di una battitura contro a queste sbarre non è determinata
solo dal fatto di una persona condannata o non! Ma è determinata dalla
propria unione psicologica o morale all’interno di un contesto non
proprio. La sensazione di libertà, del proprio spirito, della propria
mente, del sentirsi vivi dentro all’inferno, consapevoli che fuori il
mondo va sempre di più al contrario, della troppa ed eccessiva
industrializzazione morale, psicologica ma soprattutto umana. Al
risposta ad un quesito. Perché? Non si parte dall’idea di aver vinto! Ma
si deve pensare, agire e proclamare e soprattutto far capire di quanta
ingiustizia, corruzione, ipocrisia vige dentro all’apice..”della legge è
uguale per tutti”. Questa battitura dovrebbe sentirsi all’interno del
proprio io e seguire per un’utopia migliore con le giuste proporzioni.
Cosa che molto spesso rimane un’utopia.
Tutte le mattine la sveglia era quell’orribile rumore alle sbarre
chiamata battitura: l’agente entra sbattendo quell’orribile manganello
alla grata. Quel rumore rimbomba nelle orecchie e viene fatto apposta
per svegliarti e buttarti giù dal letto. Siamo classificati senza cuore
e senza intelligenza ma il nostro grido alle sbarre è “ridateci la
nostra libertà”. In galera si trovano persone per i seguenti reati:
rapina, prostituzione, spaccio, ecce cc ma i politici ci hanno rovinato
togliendo il lavoro senza poter portare a casa un pezzo di pane. Ma i
giudici si rendono conto che con la crisi economica stanno aumentando i
reati ma si chiedono dove sono le fondamenta del problema? Oggi sono IO
a fare la battitura cercando di buttare giù quelle sbarre e il mio grido
per farlo sentire al mondo intero che non sono criminale o ladra ma sono
una persona con sani principi e con la mia intelligenza posso dire al
giudice “Giudice lei è giudice perché ci sono IO per il reato commesso.
Ma lei non si chiede il motivo del mio reato?”Al popolo grido “datemi
della colpevole ma lo stesso vivo con il mio rispetto con il mondo
intero”. Un giorno con questa battitura potrò avere giustizia con i miei
sani principi. Se occorre di rifarlo sbatterò il piatto alle sbarre
finché le mie mani non si riempiranno di lividi. Per poter avere la mia
libertà. La battitura è stata uno sfogo emotivo, una liberazione della
rabbia che cresce poco per volta. Rinchiusa dentro una cella con poche
cose personali che ti legano, condividendo tutto con almeno altre 3
persone, che poi diventano una famiglia momentanea. Non avendo un modo
di sfogo la battitura in quel preciso momento ha potuto farmi scaricare
tutta la tensione emotiva, per arrivare alle orecchie di chi deve
ascoltare un detenuto.
Diffondiamo un testo volantinato e attacchinato a Trento e Rovereto
(oltre che ai parenti dei detenuti del carcere di Spini di Gardolo
all'entrata e all'uscita dei colloqui).
Giugno 2013.
SOLIDARIETÁ CON I DETENUTI DEL CARCERE DI TRENTO
Negli ultimi mesi i detenuti del carcere di Spini di Gardolo (TN) hanno
fatto uscire diverse notizie sulle condizioni di vita e i maltrattamenti
da parte delle guardie. I loro racconti parlano di: ripetute violenze
psicologiche e fisiche dei secondini verso i detenuti (un esempio su
tutti: l’umiliazione della “corsetta” che i secondini pretendono dai
detenuti che vanno in socialità. Questa cosa capita a molti detenuti. A
chi si rifiuta di far la “corsetta”, suscitando le risatine del
secondino di turno, si chiude il cancello e si nega la socialità);
minacce ai prigionieri più combattivi; trasferimenti punitivi da una
sezione all’altra; licenziamento dal lavoro interno (spesso unica, e
minima, possibilità di avere qualche soldo) per chi protesta; ripetute
perquisizioni nelle celle; provvedimenti disciplinari; minaccia di
sottrarre libri e manifesti; ritardi nella distribuzione della posta;
un’ora sola alla settimana per andare in biblioteca; impossibilità di
acquistare lamette da barba (con conseguente affollamento dal
“barbiere”, il che causa scarsa igiene e perdita di molto tempo
sottratto all’ora d’aria); perquisizione totale con i piegamenti prima
dei colloqui (un detenuto che si è rifiutato di subire quest’umiliazione
è stato preso a sberle dalle guardie, in sei contro uno); 30 celle senza
tv; detenuti costretti a rimanere in carcere anche se malati di AIDS o
epatiti, e il sabato e la domenica non c’è neanche un medico all’interno
del carcere.
Scioperi della fame, scioperi del carrello (cioè il rifiuto del vitto
fornito dall’amministrazione del carcere), documenti collettivi
sottoscritti da un centinaio di detenuti sono alcune delle risposte a
questa situazione assieme ad altre proteste che una parte dei
prigionieri ha effettuato contro le condizioni di vita che vengono loro
imposte, contro i maltrattamenti dei secondini (ad esempio il mancato
soccorso dei detenuti che stanno male) che dentro a Spini di Gardolo la
fanno sempre più da padroni.
Lo sanno bene anche i parenti dei detenuti che anche solo durante i
colloqui hanno un “assaggio” del trattamento umiliante che i loro cari
subiscono dentro le mura carcerarie (ad esempio l’ultima trovata dello
“spogliarello” durante la perquisizione per entrare ai colloqui).
Se non vogliamo continuare a subire dicendoci “fino a qui tutto più o
meno bene”, cominciamo a confrontarci per risolvere alcuni dei problemi
più urgenti della vita carceraria, fino ad arrivare ad affrontare la
questione che le racchiude tutte, ovvero la libertà per tutti i
detenuti.
anarchici e anarchiche
Quello che segue è un estratto di una lettera proveniente dal carcere di Spini di Gardolo (Trento) da un detenuto coinvolto nella famosa, almeno per qualcuno, rivolta nel carcere di Bolzano. Uno degli episodi più significativi tra le proteste carcerarie che hanno animato gli scorsi anni. Ricordiamo che un’intera sezione era stata resa inutilizzabile dalla rabbia dei detenuti stanchi dell’ennesima violenza poliziesca.
“Sono un ragazzo …che ha vissuto di persona la rivolta nel carcere di Bolzano il 23/01/12.
Il motivo di questa rivolta sono state una serie di maltrattamenti da parte di alcuni agenti nei confronti dei detenuti.
Questa rivolta è nata dopo tante manifestazioni nel corso degli anni. Perché non si poteva più sopportare la violenza usata contro noi detenuti senza motivo.
Tanti detenuti sono stati vittime di maltrattamenti prima di quel giorno e nonostante abbiamo fatto proteste pacifiche per poter denunciare i colpevoli nessuno ci voleva ascoltare. Tutto ciò che siamo riusciti ad ottenere sono promesse mai realizzate.
Posso dire tutto ciò che riesco ma non riuscirò mai a descrivere ciò che succedeva dentro quelle due celle. Non ci sono parole per farlo. Ciò che succedeva era il massimo della crudeltà, la pura violenza selvaggia, il puro maltrattamento (mentre sto scrivendo mi vengono i brividi, purtroppo sono uno di quelli che ha vissuto questa brutta esperienza). Quando questi 5 agenti si stancavano ci chiedevano di rimetterci i vestiti, dopo ci toglievano le manette. Dopo tutte queste botte io personalmente ho fatto una fatica enorme a mettermi i vestiti. Dopo ancora manette e venivamo accompagnati verso il furgone con cui dovevamo essere trasferiti in un altro carcere. Per arrivare al furgone c’erano circa 100 metri di distanza da quelle due celle e mentre si veniva accompagnati da due agenti che ti tenevano dalle braccia mentre gli altri continuavano a darti schiaffi, pugni e calci senza pietà.
Io speravo di morire in quel momento perché non ce la facevo più a sopportare quel dolore.
Arrivati al furgone il detenuto veniva lasciato nelle mani di un altro agente, che posso descrivere come “Hulk bianco” per quanto era forte: riusciva a prenderci con una sola mano e ci sbatteva da un lato all’altro del furgone costringendo a pronunciare ad alta voce: “Mia madre è una puttana”, mentre calci e pugni cadevano come se piovesse. Aveva un modo violentissimo per farti sedere sul furgone.
Io ero con il primo carico di detenuti che dovevamo essere trasferiti al carcere di Trento. Eravamo in 20 dentro 5 furgoni, 4 per ogni furgone. Quando siamo arrivati a Trento c’erano una marea di agenti che aspettavano il nostro arrivo. Siamo scesi dai furgoni e davanti l’ingresso interno ci hanno ordinato di metterci in ginocchio e ci hanno preso a calci sulla schiena , mentre gridavano: “Bastardi figli di puttana! Questo è il benvenuto a Trento da parte nostra”. Poi ci hanno portato dentro, con schiaffi e insulti sulle nostre famiglie.
Prima di venire sistemati nelle celle dovevamo essere immatricolati, in questa fase venivamo lasciati nudi per più di mezz’ora al freddo mentre soffrivamo per il dolore causato dalle botte che nessuno di noi ha mai ricevuto in tutta la sua vita.
Nonostante questo io sono stato chiamato dal dottore 3 giorni dopo il mio arrivo a Trento.
Questa è la realtà che si vive dietro le mura delle carceri italiane!”
A GUANTANAMO MI STANNO UCCIDENDO
di Gennaro Carotenuto, domenica 21
Samir Naji al Hasan Moqbel, è prigioniero a Guantanamo dal 2002. Non è mai stato incriminato né processato. Da 70 giorni è in sciopero della fame. Ha raccontato la sua storia, attraverso un interprete arabo, agli avvocati di Reprieve [1], una ONG che offre assistenza legale a prigionieri che non hanno possibilità di difendersi. La sua testimonianza è stata pubblicata dal New York Times [2], traduzione italiana di Gennaro Carotenuto.
C’è un uomo qui che pesa solo 35 kg. Un altro 44. L’ultima volta che mi hanno pesato ero 59 kg. Ma è stato oltre un mese fa. Sono in sciopero della fame dal 10 febbraio e credo di aver già perso più di 30 chili. Non mangerò finché non ripristineranno la mia dignità. Sono detenuto a Guantanamo da 11 anni e tre mesi. Non sono mai stato incriminato di alcun delitto. Non sono mai stato processato.
Dovrei essere a casa da anni – nessuno pensa seriamente che io sia una minaccia – ma resto qui. Anni fa i militari mi dissero che ero una “guardia” di Osama bin Laden. È un’accusa senza senso, una cosa da film americani di quelli che mi piaceva guardare. Neanche loro ci credono. Ma non sono interessati a quanto tempo io debba restare seduto qui.
Nel 2000, a casa mia, nello Yemen, un amico d’infanzia mi disse che in Afghanistan avrei potuto guadagnare meglio dei 50 $ al mese che mi davano in fabbrica, e avrei potuto mantenere la mia famiglia. Non avevo mai viaggiato e non sapevo nulla dell’Afghanistan, ma ho provato.
Ho sbagliato a fidarmi di lui. Non c’era lavoro. Volevo lasciare ma non avevo i soldi per tornare a casa. Dopo l’invasione americana del 2001 sono fuggito in Pakistan come tanti altri. I pakistani mi hanno arrestato mentre cercavo di andare all’ambasciata yemenita. Sono stato inviato a Kandahar e da lì messo sul primo aereo per Gitmo.
Lo scorso 15 marzo ero ricoverato nell’ospedale della prigione per le mie condizioni a causa dello sciopero della fame. Una squadra di otto agenti della polizia militare in tenuta antisommossa ha fatto irruzione, mi ha legato al letto e mi ha inserito nella mano un ago per alimentarmi forzosamente. Mi hanno lasciato 26 ore legato al letto impedendomi di andare in bagno. Poi mi hanno inserito un catetere. È stato doloroso, degradante e inutile. Mi hanno impedito perfino di pregare.
Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno infilato il sondino nel naso. Non riesco a descrivere quanto sia doloroso essere sottoposto ad alimentazione forzata in questo modo. Appena lo hanno spinto in su volevo vomitare, ma non ci riuscivo. Sentivo ardere il mio petto, la gola e lo stomaco. Non avevo mai provato tanto dolore prima e non vorrei una punizione così crudele su nessuno.
Da allora sono in alimentazione forzata. Due volte al giorno mi legano ad una sedia nella mia cella. Mi bloccano le braccia, le gambe e la testa. Non so mai quando arriveranno. A volte vengono durante la notte, quando sto dormendo. Ci sono così tanti di noi in sciopero della fame che non ci sono abbastanza membri dello staff medico per effettuare le alimentazioni forzate regolarmente. Così lo fanno quando possono.
Durante un’alimentazione forzata l’infermiera ha spinto il tubo di circa 18 pollici nel mio stomaco, facendomi più male del solito perché stava facendo le cose troppo in fretta. Ho chiamato l’interprete per chiedere al medico cosa non andasse. Era così doloroso che ho pregato loro di smettere. L’infermiera ha rifiutato di sospendere l’alimentazione forzata. Mentre stavano finendo, il “cibo” si è versato sui miei vestiti. Ho chiesto loro di cambiarmi, ma la guardia ha rifiutato strappandomi anche quest’ultimo brandello della mia dignità.
Quando vengono, se rifiuto di essere legato, chiamano la squadra antisommossa. Almeno mi resta una scelta. Posso rifiutarmi ed essere picchiato oppure accettare l’alimentazione forzata.
L’unica ragione per la quale mi tengono qui è che il presidente Obama rifiuta di inviare qualsiasi detenuto nello Yemen. Questo non ha senso. Io sono un essere umano, non il mio passaporto, e merito di essere trattato come tale. Io non voglio morire qui ma fino a quando il presidente Obama e il presidente dello Yemen non faranno qualcosa io rischierò di morire qui ogni giorno.
Dov’è il mio governo? Sono disposto a sottomettermi a tutte le “misure di sicurezza” che vorranno pur tornare a casa, anche se sarebbero del tutto inutili. Accetto qualunque cosa pur di uscire da qui. Oggi ho 35 anni. Tutto quello che voglio è rivedere la mia famiglia e iniziarne una mia.
La situazione è disperata ora. Tutti i detenuti qui stanno soffrendo profondamente e almeno 40 di noi sono in sciopero della fame. Ogni giorno ci sono svenimenti. Io vomito sangue. Ma non c’è fine in vista
per la nostra prigionia. Rifiutare il cibo e rischiare la morte ogni giorno è la scelta che abbiamo fatto per la nostra dignità. Spero solo che tanto dolore serva a che gli occhi del mondo guardino a Guantanamo prima che sia troppo tardi.
Gennaro Carotenuto su:
http://www.gennarocarotenuto.it [3]
Links:
[1] http://www.reprieve.org.uk/
presidio in solidarietà a Maurizio Alfieri, carcere di Saluzzo 16/02/2013
LETTERA DI GIULIA incarcerata nel nell'operazione "Ardire" Ci sono momenti in cui arriva il sole, attraversa le sbarre, filtra dal vetro, attraversa la bottiglia che hai sul tavolo, si allunga in stralci sul tavolo, ti scalda un po’ l’orecchio. Ci sono momenti in cui di notte guardi il soffitto, ascolti il silenzio, senti il rumore del vuoto del corridoio, ascolti il sibilo di una porta chiusa. Ci sono momenti in cui ti siedi a fumare una sigaretta all’aperto e guardi il cielo e pensi che se credessi in Dio lo ringrazieresti di poter godere di tanta bellezza anche da qui. Ci sono momenti in cui cammini per i corridoi e pensi che non ti usciranno più dai polmoni. Ci sono momenti, tanti momenti, in cui il tuo corpo è fermo e la tua mente ti sta immaginando mentre distruggi tutto quello che ti capita tra le mani. Ci sono momenti in cui pagheresti oro per una bella birra fresca. Ci sono momenti in cui ti arriva, da non sai bene dove, un odore di terra, di foglie, di autunno e ti ricordi. Ci sono momenti in cui il sole del cielo d’autunno ti fa ripensare alle montagne e al fiato dei tuoi cani. Ci sono momenti in cui finalmente tutte le parole vuote scompaiono, tutte le maschere cadono. Ci sono momenti in cui cadono tutte quelle degli altri senza che loro lo sappiano. Ci sono momenti in cui ti accorgi che questo posto ti ha cambiato e altri in cui pensi di essere sempre la stessa; e ti scopri e ti riscopri. Ci sono momenti in cui riconosci l’ora della giornata dal rumore che senti nei corridoi e ti accorgi che sta diventando normale. Ci sono momenti in cui di notte ti svegli di soprassalto perché una luce ti spia il sonno. Ci sono momenti in cui vedi una madre piangere perché non può fare la cosa più naturale su questa terra: stare con i suoi figli. Ci sono momenti in cui piangi per il pianto di quella madre, per gli abbracci negati, per i rapporti mutilati, perché pensi che per tanto dolore nessuno pagherà mai. Ci sono momenti in cui pensi che potresti guardare per ore il viso delle compagne che sono con te, perché sai che è solo per quegli occhi che non hai mai avuto paura di questo inferno. Ci sono momenti in cui pensi al dolore di chi viene a trovarti; alle loro facce che, tutte le volte che se ne vanno, sbigottite, dicono “la stiamo lasciando qui”. Ci sono momenti in cui il sangue si gela al pensiero della libertà perché pensi che non potrai portare fuori con te le tue compagne. Ci sono momenti, tanti momenti, in cui una risata irrompe come un tuono, come una cascata da un dirupo e si dipana fresca sulla pelle, sul viso, nella testa. Ci sono momenti in cui vedi tornare il sorriso sul volto di una compagna e pensi di non voler altro dalla giornata. Ci sono momenti in cui ti arriva la voce che qualcuno è uscito o evaso e le sbarre si incrinano e il sorriso è beffardo. Ci sono momenti, tanti, costanti, ripetuti in cui pensi ad un cumulo di macerie, a chiavi spezzate, a divise bruciate e senti la freschezza dei piedi nudi sull’erba e il respiro è profondo. Giulia Marziale